Il mio sentire ha un nome. Sono perfettamente consapevole che ogni volta che attribuiamo un nome a qualcosa e che la facciamo nostra, creiamo un legame emozionale con l’oggetto, ma come molte persone diagnosticate in età adulta, ho riesaminato la mia vita alla luce della scoperta che il mio modo di funzionare trova una spiegazione nello spettro autistico.
È stato un esercizio interessante, sia nei confronti di me stessa che nei confronti degli altri. Sono sempre la stessa, eppure la ‘rivelazione’ ha provocato reazioni in me stessa e negli altri che mi hanno talvolta sorpreso.
Ovviamente non ho potuto fare altro che concludere: “come ho fatto a non scoprirlo prima?”. Qualcuno lo aveva capito prima di me, in effetti.
Proseguendo nella carrellata della vita sono arrivata al momento in cui ho scelto di praticare, e poi di insegnare, Yoga.
Uno dei principali motivi per cui lo Yoga mi è stato immediatamente congeniale è l’idea che il corpo-mente che ci caratterizza in questa vita, su questa terra, altro non sia che un evento transitorio, che nulla ha a che vedere con chi siamo veramente, ma che è al contempo fondamentale.
Che se facciamo silenzio e ascoltiamo con attenzione possiamo percepire un richiamo in sottofondo, la pulsione verso qualcosa di indefinito, di ‘oltre’.
In quello che può apparire un paradosso, la disciplina dello Yoga sceglie di utilizzare proprio il corpo-mente per comprenderne la transitorietà. Ci insegna che è questo strumento è funzionale alla rivelazione che c’è ‘altro, oltre’.
Muovermi, da sempre, mi aiuta a creare, a pensare, a concentrarmi.
Il secondo motivo per cui ho trovato questa disciplina congeniale è che le filosofie indiane sembrano nutrirsi di classificazioni.
Analizzare, classificare, incasellare – anche troppo rigidamente talvolta, mi aiuta a darmi un senso di direzione, di sicurezza, nel marasma della vita.
Nel mio lungo rimuginare sono però arrivata ad un’altra ipotesi sul perché lo Yoga mi sia stato così immediatamente vicino ed è di questo in realtà che voglio parlare. Oggi non parlerò di come il respiro regolare aiuti a placare i fantasmi della mente, ma di come a mio parere si possano trovare forti correlazioni tra il funzionamento neurologico dello spettro autistico e la mente yogica.
Con questo non voglio ovviamente dire che Patañjali fosse autistico ma non posso fare a meno di pensare che questa disciplina fortemente introspettiva abbia caratteristiche che si sovrappongono a quelle dello spettro autistico. Come sono giunta a questo pensiero?
Ho pensato a come i tratti caratteristici di tanta parte della pratica (penso a tapas; al mio considerare āsana come tapas nell’accezione contemporanea di una pratica spesso non esplicitamente meditativa; alle mudrā) richiamino in maniera forte quello che viene definito stimming – l’uso del corpo e della gestualità per facilitare la concentrazione, gesti speciali eseguiti in un approccio quasi ritualistico.
Ho pensato a come tanti praticanti yoga sembrino avere una percezione alterata del dolore, e come questo porti talvolta a farsi male (tanto che qualcuno ha scritto una serie di articoli sull’argomento – con svariate interpretazioni), e che la percezione alterata del dolore è un tratto neurologico che spesso accompagna l’autismo.
Ho pensato che tanti praticanti di yoga sono iper-mobili spesso anche a livello patologico, e a come ci sia spesso co-occorrenza tra disordini del tessuto connettivo e autismo. Questa considerazione ovviamente si applica alle pratiche più orientate verso un uso intensivo del corpo, ma tant’è.
Ho pensato a ekāgratā – la mente focalizzata su un solo oggetto – e la capacità di focalizzarsi in maniera quasi maniacale sull’oggetto di interesse (il cosiddetto ‘interesse assorbente’…) che caratterizza molte persone nello spettro.
Ho pensato ai consigli rivolti dai testi ai praticanti di yoga – per esempio quello di evitare di perdere tempo in chiacchiere, di mantenere una dieta moderata e attenta – e al bisogno di silenzio e solitudine e al comportamento alimentare particolare che spesso caratterizzano le persone nello spettro.
Ho pensato a come lo yoga non risuoni in tutti, che chi fa yoga spesso si sente diverso dagli altri, ha una ristretta cerchia di amici come spesso le persone nello spettro, persegue interessi particolari con grandissima disciplina.
Dolorosamente consapevole che ogni etichetta è un ostacolo se le attribuiamo un valore emozionale, vedo però tante sovrapposizioni e co-occorrenze tra la mente autistica e la mente yogica. Lo Yoga e la scienza ci insegnano che due teorie sono compatibili fintanto che non entrano in contraddizione, e non mi sembra di averne trovate, per ora.
Potrei naturalmente sbagliarmi ed essermi ‘innamorata’ di questa idea che mi valida, mi rassicura e che ora, dal punto di vista dello Yoga, ha creato un vincolo…
Se leggendo vi è venuta voglia di discuterne, scrivetemi.