Recentemente ho partecipato al convegno annuale dei soci YANI (Yoga Associazione Nazionale Insegnanti) il cui tema era Etica: I Valori in Azione. La YANI è una associazione pluralista, nel senso che gli insegnanti che la compongono non appartengono tutti ad una stessa tradizione, e questa è una delle sue forze. Naturalmente anche uno dei punti critici, dal momento che ci si confronta e ci si può facilmente trovare a non avere la stessa interpretazione di come attuare lo yoga, talvolta addirittura di cosa sia.
Anche per questo l’etica ed il rispetto restano un tema attuale e purtroppo non sempre ‘agito’ dagli insegnanti di yoga, a partire dal trovare ogni scusa possibile per non pagare le tasse (“ho una asd e non ‘posso’ rilasciare ricevute sopra i 7500 euro..” per esempio. Non ‘puoi’? o forse non hai voglia di pagare le tasse dovute una volta superata quella cifra di fatturazione?) all’abusare, fisicamente e psicologicamente, dei propri allievi.
Ma non è di questo che voglio parlare. Voglio parlare di una riflessione che ho fatto durante la pratica della brava Michaela Gamalero anche a seguito del workshop su tapas tenuto da Ysé Tardan-Masquelier. L’argomento della pratica era asmitā, l’ego, nel senso di ‘io sono’ ‘secondo me’ ‘mi piace/non mi piace’.
La pratica proposta da Michaela segue la scuola di Patrick Tomatis e Paolo Conte. Sapendo che molti dei partecipanti al suo workshop pratico sarebbero arrivati da scuole diverse, Michaela ha accentuato l’utilizzo del respiro in posizioni non complesse ma significative. E sapendo che il respiro ha una grande importanza anche in altri metodi yoga, ha voluto che questo respiro prendesse ritmi non usuali, che diventasse strumento di osservazione delle nostre tendenze a voler reiterare quello che già conosciamo, quello che crediamo di essere.
E così è stato, in effetti. Torsioni eseguite con l’inspirazione, apanāsana allontanando le gambe, chakravakāsana che iniziava e finiva con movimenti del collo hanno conferito ad una pratica di per sè semplice un sapore nuovo e complesso.
Mi sono ritrovata a pensare ‘che diavolo ci fa fare? questo è tutto sbagliato’ e poi riflettere che in fondo potevo anche accettare quella differente visione della pratica e vedere cosa succedeva. E quello che è successo è stato interessante, perchè mi sono ritrovata ad abbandonarmi alle istruzioni e ascoltare le differenti reazioni che queste suscitavano.
L’idea di Michaela era quella di aiutarci a capire quanto subdolamente asmitā agisce, in ogni nostra anticipazione delle istruzioni che ci arrivavano da lei, nella nuvola di avidyā che perennemente avvolge le nostre azioni e i nostri pensieri.
Molti concetti mi sono passati davanti durante l’esperienza. Da Śraddhā, la fiducia e l’affidarsi anche (sopratutto?) quando non si conosce ancora il risultato, a tapas come disciplina e ardore e iśvarapranidhāna come abbandono.
E su questi due punti mi è sorta una riflessione che spero non susciti sollevamenti di sopracciglia nei puristi. Nella esperienza della pratica con Michaela ho confrontato la mia natura di tapasvini, in tutto quello che faccio c’è ardore e disciplina, e il mio rapporto con iśvarapranidhāna inteso come un cedere il passo all’indescrivibile. Invertendo il respiro l’equilibrio della pratica si è spostato su una dimensione diversa, una morbidezza nuova e più profonda del semplice rilassamento muscolare. Iśvarapranidhāna era improvvisamente accessibile.
Allora mi è parso che in fondo tapas e iśvarapranidhāna occupino due estremi, che devono essere mediati da svādhyāya, l’osservazione di sè. Che per questo la triade del kriya yoga e degli ultimi tre niyama abbia questi termini in questo preciso ordine. Che tapas sia il punto di partenza e iśvarapranidhāna l’arrivo. O pensando a quanto Patañjali amasse le contrapposizioni, i contrappunti – dedizione e distacco, tensione e abbandono, forza e morbidezza, è possibile pensare iśvarapranidhana come il mondo oltre lo specchio, dove svādhyāya è la superficie di vetro piombato?
Certo, posso banalizzare tutto pensando che, molto semplicemente, un insegnante di yoga ha una pratica personale ma troppo poco spesso pratica sotto la guida di altri, il che di per sè sposta la pratica su un piano diverso, ma credo che piano piano ci si muova, nella propria esperienza, verso campi più sottili e meno noti, se si abbandonano le certezze e le aspettative.
2 replies on “Tapas e Iśvarapranidhāna – una riflessione personale”
Carissima Chiara,
sono molto felice di sentire che la mia proposta al convegno abbia avuto in te una risonanza. Per mezzo della pratica ho cercato di “tendere delle trappole” ad asmita, per evidenziare quanto in ogni momento della nostra vita, quindi anche “sul tappetino”, siamo in balia di questo egocentrismo innato che ci spinge a correre dietro a un risultato, con disperazione, con violenza, come se non potessimo essere senza essere qualcosa, senza valorizzarci con qualcos’altro. Perché non possiamo semplicemente essere?
La fiducia, sraddha, che tu giustamente sottolinei, è un passaggio essenziale: il fatto che tu ti sia affidata, l’abbandono, può condurre a Isvara pranidhana. Asmita, trincerato nelle proprie convinzioni, non desidera altro che la ripetizione delle proprie esperienze e rifiuta ostinatamente di aprirsi al nuovo (abhinivesa è proprio questo). Il nuovo può accadere solo quando si abbandona il conosciuto, quando si ha il coraggio di guardare la stessa cosa da un’altra prospettiva: è la cosa più difficile, perché le abitudini sono “diventate carne”, come dice Squarcini, ci rassicurano, si ripercorre lo stesso solco, non ci si fanno più domande…
Tapas deve essere al servizio di qualcosa di più vasto, che è Isvara pranidhana, altrimenti potenzia asmita. Farsi condurre dal respiro ci permette di abbandonarci, di entrare in contatto con questo grande Mistero, che ognuno definisce a modo suo: la Vita, Dio, ma che in realtà è indefinibile.
Ancora grazie
Michaela
Grazie Chiara per questa riflessione che dona molti spunti di osservazione, e grazie a Michaela che ha proposto l’ottima pratica che l’ha generata. Anch’io nel farla mi sono trovata a tratti spiazzata e mi sono accorta che è più facile mettere in dubbio il proprio udito che accogliere senza giudizio proposte diverse da quelle che applichiamo di solito. Costruiamo costantemente abitudini che confermano la nostra percezione, si cade nell’abitudine anche nella pratica, confermando ciò che sappiamo già. Uno sforzo diverso è richiesto nell’ usare la pratica per rompere la consuetudine, per farci uscire dal solco già tracciato ed accettare il nuovo. Non è uno sforzo muscolare ma richiede forza, è lo sforzo del mantenere un varco di apertura e disponibilità, lo spazio per fare una nuova esperienza. A volte si può essere colti dallo scoraggiamento osservando come le abitudini “siano diventate carne” come dice Squarcini, e come sia difficile uscire da schemi percettivi consolidati, ecco allora che diventa prezioso uno “sgambetto” nella pratica come quello proposto da Michaela. Essere guidati a scavalcare un’abitudine per permettere una nuova esperienza ci fa immediatamente osservare le resistenze di Asmita e scoprire che per andare oltre servono forza e fiducia, in chi ci guida e in noi stessi. Per andare oltre è necessario spogliarsi di quel’ingombrante Amita che pensa di saper tutto, entrare nudi in territorio sconosciuto, come è ogni istante di presente. Grazie a tutte e due per le riflessioni e per lo stimolo a pensare pratiche con le trappole.