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L’Alba dello Yoga – Un seminario con Sri TK Sribhashyam

A fine luglio ho partecipato ad un seminario con Sri TK Sribhashyam, uno dei figli di Sri T Krishnamacharya. L’argomento del seminario è stato un approfondimento degli argomenti trattati nel suo libro sullo Yoga già pubblicato in diverse lingue e ora anche in Italiano, con il titolo “L’Alba dello Yoga” [Mursia, ISBN 8842551384].

Si tratta di un libro molto bello e completo, con una prospettiva dello Yoga più legata alla tradizione Vedica, almeno dal punto di vista meditativo, ottime schede tecniche di spiegazione di āsana e prānāyāma, e un grande numero di proposte di pratiche, nonchè alcune delle pratiche personali di Sri T Krishnamacharya.

Nel libro, quasi controcorrente rispetto a quello che ormai siamo abituati a sentire, Patañjali e i suoi Yoga Sutra non sono praticamente nominati. Si fa riferimento ai Veda e agli insegnamenti di Yajnavalkya, il cui trattato era un importante riferimento per Krishnamacharya.

Sono molto interessata a studiare con gli allievi diretti di Sri T Krishnamacharya, perché i suoi insegnamenti appaiono declinati in maniera così diversa dai suoi studenti, che quest’uomo rimane per me ancora un mistero.

In realtà, man mano che pratico e studio, mi rendo conto che alla base delle differenti proposte c’è una grande coerenza di insegnamento: l’importanza del respiro consapevole guida la pratica sia che essa si rivolga a ragazzini snodati che ad adulti incartapecoriti, il rispetto delle diverse possibilità umane è alla base del metodo, la fiducia nella pratica la guida e le dona forza ed energia, la pratica diventa un rituale verso stati meditativi profondi.

Ma gli insegnamenti ricevuti tendono sempre ad essere colorati dalla esperienza e personalità degli studenti, checché se ne dica o si voglia ammettere, pertanto è umano vederli declinati in maniera diversa, da Patthabi Jois a TKV Desikachar a Srivatsa Ramaswami, ad AG Mohan.

L’opportunità, creata con perseveranza da Steve Brandon di Harmony Yoga, di ascoltare un altro importante studente di Krishnamacharya e praticare sotto la sua guida, era troppo grande per poterla ignorare. Pertanto ho deciso di sforare il mio budget per l’anno e di iscrivermi al seminario di Sri TK Sribhashyam, ho prenotato volo e alloggio e ho atteso con aspettativa il momento, rileggendomi il libro e preparando alcune domande.

Ero anche molto emozionata perché in qualche modo sapevo che avrei affrontato una realtà diversa da quella se vogliamo ‘laica’ di altri workshop a cui ho partecipato. La lettura approfondita dell’Alba dello Yoga e il mio tentativo di leggere gli altri libri di Sribhashyam sul percorso bhakti mi avevano messo di fronte al mio istintivo rifiuto di tutto quanto porti la parola ‘dio’ e ‘devozione’. Ma l’approccio di Sri TK Sribhashyam é fermamente saldo nella tradizione Vedica, così come lo era l’approccio di Sri T Krishnamacharya, anche se spesso non ci si pensa. Quindi sapevo che in qualche modo la mia partecipazione a questo seminario sarebbe stata una sfida con me stessa, una verifica della mia apertura verso aspetti che – se mi spaventano tanto – devono essere estremamente importanti per me, credo.

Ammetto che mi è difficile mandare giù il concetto di iśvarapranidhāna se non inteso come impegno profondo nelle attività intraprese, andando oltre i propri interessi personali, definizione alla quale aderisco completamente. È il passo successivo sul quale mi sento incerta.. Ma sul problema di iśvara si ritornerà in seguito.

Che Sri K Sribhashyam sia un insegnante tradizionale si è capito presto, quando ha voluto ricevere in anticipo le domande che intendevamo rivolgergli, riservandosi la decisione sul dare o meno una risposta. Che sia un insegnante serio si è capito altrettanto presto, quando abbiamo ricevuto un documento prima del seminario che conteneva già molte risposte alle nostre domande e l’impegno ad espandere alcune spiegazioni durante il seminario.

Il seminario era organizzato con sessioni teoriche, pratiche e spazi per le risposte alle domande inviate precedentemente e alle domande sulle pratiche svolte nella giornata. Partecipavano anche alcuni suoi studenti di lunga data, e la gentilissima Brigitte Khan dimostrava le sessioni pratiche sotto la guida di Sribhashyam. Molti dei partecipanti erano insegnanti, o studenti di altre scuole.

Sribhashyam ci ha pertanto chiesto di ascoltare, lasciare da parte le nostre conoscenze precedenti, lasciar sedimentare quanto stavamo apprendendo e valutare in completa libertà l’utilità di continuare a praticare quanto appreso, una volta finita l’esperienza del seminario. Questo ha messo a tacere molte domande legate al confronto con esperienze precedenti, e mi ha ricordato quanto detto da Ramaswami in passato, riguardo alla lettura dei testi: prima leggi quello che l’autore ha da dire, svuotando la mente dai pensieri pre-esistenti, poi rileggi alla luce del tuo pensiero. Difficilissimo, già di per sé un esercizio meditativo.

Le sessioni pratiche erano basate su quelle proposte nel libro e a parte alcuni aspetti Sribhashyam non ha apportato correzioni alla nostra applicazione salvo alcuni punti fondamentali: che la postura in piedi fosse corretta, che le nostre schiene fossero ben dritte nelle posizioni sedute e che il nostro śitali fosse praticato correttamente. Ammetto di aver tirato un sospiro di sollievo quando ho passato la ‘prova’ di śitali.

Interessante quanto Sribhashyam ci ha chiesto esplicitamente: accetta la correzione, non pensare a perché vieni corretto, non confrontare con quanto imparato prima, non lasciare che la tua mente sia affetta dalla correzione. Vedi sopra!

Le pratiche cominciano e terminano con un prānāyāma, e presentano un aspetto molto importante, quello dell’osservazione a terra dopo ogni āsana o prānāyāma. Sribhashyam è stato piuttosto chiaro sul fatto che questo mettersi a terra non debba essere śavāsana, ma una posizione di attenzione con gambe unite se pur rilassate e braccia lungo il corpo, quello che conosciamo come urdhva mukha samasthiti, mantenendo ed osservando lo stato mentale acquisito. Fino ad oggi avevo riposato dopo serie di āsana, o in caso di vinyāsa faticosi. Il momento di ‘silenzio’ prima di ripartire è sempre stato fondamentale ma non mi capitava di osservarlo a terra dopo ogni singolo esercizio.

Poi si riparte con l’esercizio successivo. E si riosserva. La sensazione iniziale è di interrompere qualcosa, se questo fermarsi è tra posizioni in piedi, ma in realtà la sua utilità appare abbastanza presto. Vedremo più avanti che questo ‘fermarsi’ è fondamentale nel disegno e scopo della pratica. E questo fermarsi a terra aiuta a rendersi conto meglio di come lo stato mentale cambi durante la pratica, valutare l’effetto dell’āsana dopo averlo praticato e non solo durante.

Nonostante le pratiche prevedano (ovviamente?!) un vinyāsa per entrare ed uscire dall’āsana, ed alcune posizioni fossero proposte solo in dinamica, nonostante i respiri nell’āsana non fossero spesso più di tre, la sensazione é sempre stata quella di una pratica molto ferma, stabile. Devo dire che è da un po’ che sento la necessità di ‘fermarmi’ e come spesso accade, Sribhashyam è arrivato al momento giusto.

Ho anche trovato molto interessante, dal punto di vista pratico, che il numero di ripetizioni o di respirazioni nelle posizioni sull’addome non superasse il numero di tre. In effetti queste sono posizioni intense con un effetto forte, ‘scaldano’ molto più di altre e possono turbare l’effetto totale della pratica. Sribhashyam ha introdotto brevemente il concetto ayurvedico di shitha, ushna e shithoshna, che mi hanno ricordato i concetti di langhana e brhamana appresi precedentemente (ecco subito la mente che cerca appigli e confronti con quanto imparato prima e non lascia che il nuovo entri completamente!!!). Una pratica deve portare ad un perfetto equilibrio tra azioni shitha (calmanti, rinfrescanti) e ushna (stimolanti, riscaldanti) perché non possiamo creare squilibri. Nel disegno di una pratica secondo gli insegnamenti di Sribhashyam, il numero degli āsana, ed in particolare di certi specifici āsana, è dettato dal numero di respiri eseguiti nel prānāyāma. Anche Claude Maréchal nel suo seminario di revisione ha sempre riportato il numero totale di respiri di una pratica, oltre ovviamente al numero di respiri nei singoli esercizi, per aiutare a giudicarne l’equilibrio.

Abbiamo lavorato molto su Dhārana, possiamo tradurre questo termine come concentrazione, e l’approccio offerto da Sribhashyam si è basato sul percorrere ad occhi chiusi alcuni punti vitali lungo il corpo. Questi punti sono molto simili a quelli descritti nello Yoga Yajñavalkya ma con alcune differenze, la scelta forse legata alla sensibilità di Krishnamacharya nelle sue esplorazioni personali della pratica?

Lo sguardo ad occhi chiusi risale durante l’inspiro, dagli alluci lungo il corpo, soffermandosi su alcuni punti vitali lungo le gambe, il torso, la gola, su su su fino a naso, fronte e sommità della testa. Non si tratta di visualizzare un punto anatomico né tantomeno di entrare nel corpo, ma di seguire un filo immaginario che congiunge gli alluci alla punta del naso. Non si tratta di immaginare con la mente questi punti ma di seguire fisicamente, con gli occhi chiusi, il percorso lungo il corpo. Nell’espiro la focalizzazione si ferma su alcuni punti del torso o della testa, Mula, Hrdaya, Nāsāgra, Bhrumadhya a seconda della pratica. Secondo Krishnamacharya i punti situati tra Mula e Śīrśa hanno un maggior valore spirituale. I punti più bassi, come gli alluci, sono legati alla sfera sensoriale, li passiamo in rassegna ma non ci soffermiamo su di essi, dal momento che la pratica deve spingerci ‘oltre’.

Rispetto allo Yoga Yajñavalkya, Krshnamacharya/Sribhasyam privilegiano, aumentandone in proporzione il numero, i punti vitali più alti rispetto alle parti basse del corpo. Cerchiamo di sganciarci dalle sensazioni fisiche legate al corpo. E quando in paschimottanāsana cerchiamo di portare il naso sulle ginocchia a tutti i costi, curvando la schiena, non facciamo altro che obbedire al richiamo della sensazione fisica. Ma queste posizioni sono chiamate uttana, dobbiamo estenderci, Mula to Śīrśa, la schiena deve essere dritta ed estesa.

Oppure lo sguardo si ferma all’infinito dell’orizzonte, Tāraka. E questa focalizzazione è il preludio all’avvicinarsi allo stato meditativo. Tāraka è il punto in cui si invoca il Divino.

Su questo punto ho avuto un attimo di sconforto all’affermazione vigorosa che Dhyāna può solo essere possibile quando lasciamo che la mente si riempia del Divino. In Dhārana riempiamo la nostra mente con l’oggetto lasciando un piccolo spazio che poi in Dhyāna viene ad espandersi, tutto lo spazio viene riempito dal Divino.

E se non abbiamo un Divino? Ecco, mi sembra di aver capito che Dhyana non sia veramente possibile, in una pratica legata alla tradizione Vedica. Sribhashyam ha suggerito l’evocazione del Disco Solare, dal momento che per tutti il Sole rappresenta la possibilità della Vita, nelle pratiche che abbiamo svolto con lui, per chi non ha una fede definita da seguire.

E del resto, come dice un amico, milioni di Buddhisti nello scorso paio di migliaio di anni potrebbero dissentire su questa definizione… uno stato meditativo non legato all’evocazione del Divino deve essere possibile. Così ho scoperto che è proprio questa parola che mi spaventa. Se sostituisco alla parola Divino la parola Realtà, mi sento molto più a mio agio. Sciocco, no? Pensare come una parola possa definire il nostro stato mentale. Eppure è proprio questo che forse intende Patañjali quando dice che gli oggetti ci danno una forma che non è la nostra vera forma.

In questo seminario ho pertanto confermato come le sovrastrutture culturali abbiano davvero un impatto fortissimo sulla mente, come sia talvolta necessario cambiare un po’ le carte in tavola per lasciare che la mente accetti quello che le viene proposto.

Sribhashyam ha parlato molto del Movimento/Non-movimento, la pausa del respiro, la pausa tra le parole di un discorso, la pausa prima della scelta tra due cibi, ha parlato del nostro attaccamento al movimento e alle percezioni sensoriali, che ci rassicurano sulla nostra esistenza, e della nostra paura di fermarci, di entrare in quella sospensione dove risiede la Realtà con la R maiuscola, che non è la realtà del fragore quotidiano, della ricerca continua di sensazioni ed emozioni. Solo quando abbandoniamo sensazioni ed emozioni possiamo entrare nel Non-movimento del non-respiro e della meditazione.

Per questo nella pratica dello Yoga non dovremmo ricercare le sensazioni fisiche, ma andare oltre. La percezione del corpo per quanto interessante ed appagante possa essere, è un’altra forma di movimento. Anche se il corpo è fermo ma ci soffermiamo sulle sensazioni, siamo in pieno movimento mentale.

Per questo il lavoro sul respiro è così importante. Imparando ad allungare volontariamente il respiro, ad equalizzare inspiro ed espiro, cambiamo anche il nostro respiro inconscio e ci prepariamo, se così si può dire, all’accadere della sospensioni spontanee. Perchè la Realtà con la R maiuscola non è nell’apnea di Jacques Mayol, ma nella sospensione spontanea del respiro

Una pratica efficace deve quindi occuparsi di portarci verso il Non-movimento, che troviamo nella meditazione o nelle pause spontanee del respiro. Ci spostiamo dal fisico all’emozionale, dall’emozionale allo spirituale. Usiamo gli āsana per ridurre i movimenti del corpo non necessari, non importa quanti ne facciamo, ma il numero totale di respiri, che è nel disegno della pratica correlato al numero totale di respiri nel prānāyāma. Usiamo le mudrā per padroneggiare l’attività emozionale. Per questo sarvangāsana e sirsāsana sono teoricamente imprescindibili (anche se nel libro troviamo proposte di alternativa). Usiamo prānāyāma per padroneggiare gli impulsi fisici, per iniziare a prepararci alla pratica spirituale. Per questo il prānāyāma è imprescindibile e tra i prānāyāma nadi shodana è essenziale. Può anche costituire una meditazione in sé, soprattutto se rendiamo il respiro leggerissimo. Ed è per lo stesso motivo che una pratica che comincia con il prānāyāma ci avvia già verso l’indirizzo giusto, e Krishnamacharya iniziava sempre le proprie pratiche con un prānāyāma.

Una pratica costruita in questo modo diventa un rituale, un modo per creare una disciplina spirituale. Dell’importanza del rituale ho già parlato in un altro post, di come lo troviamo al tempo stesso sottile e forte e nella scuola di TKV Desikachar. Un rituale è – soprattutto per gli indiani a cui Krishnamacharya si rivolgeva primariamente – un’ingiunzione che non può essere ignorata o alterata.

Nel momento in cui altero un rituale che mi è stato assegnato, nel momento in cui opero una scelta il mio lato emozionale entra in gioco, proprio il contrario di quello che voglio fare in una pratica che mi deve portare alla quiete.

È stato un seminario molto importante per me, queste note sono una minima parte degli spunti di riflessione che ho avuto e su cui sto ruminando, forse queste note riportano anche la parte più ovvia, sicuramente la più facile da trascrivere; potrei scrivere ancora pagine e pagine ma credo che vi annoierei e comunque ci sono aspetti per i quali leggere note scritte da un altro, senza essere stati presenti all’esperienza, lascia il tempo che trova. Forse anche quanto ho scritto sopra, è banale, non so.

Diciamo che ho ritrovato nelle parole e nelle pratiche proposte da Sri TK Sribhashyam quello che penso sia il Krishnamacharya originale, credo a quanto dice Sri TK Sribhashyam che questo era il modo in cui suo padre praticava, non necessariamente quello che insegnava agli altri, anche ripensando alla lettura dello Yoga Makaranda, quanto ascoltato ed esperito risuona autentico e personale.

I pressoché nulli riferimenti a Patañjali inizialmente stupiscono, pensando all’importanza degli Yoga Sutra nella trasmissione dell’insegnamento da parte di altri suoi allievi, ma occorre credo tenere conto del fatto che forse per Krishnamacharya questo testo non aveva l’importanza che gli è stata data in seguito, quando la base di studenti meno legati ai Veda è aumentata.

È stata un’esperienza molto importante, che mi ha messo davanti ad alcune problematiche che dovrò affrontare in questo percorso, e che mi ha dato alcuni strumenti molto utili sia per l’insegnamento che – soprattutto – per la mia ricerca personale.

Sono contenta di essere stata invitata.

Il sito della scuola: http://www.yogakshemam.net/English/homepage.html e la versione italiana: http://www.yogakshemam.net/Italian/homepage.html

 

2 replies on “L’Alba dello Yoga – Un seminario con Sri TK Sribhashyam”

Grazie Chiara, e’ stato molto interessante il tuo articolo!! Ci dai la possibilità di sapere qualcosa di nuovo e utile. Personalmente vedo nella tua immensa capacità (voglia) di condividere proprio l’aspetto di ishvarapranidhana, quello di restituire, o donare agli altri…e in questo sei sempre grande! Grazie per la tua condivisione continua!

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