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La traduzione, la trasmissione e l’esperienza personale

Recentemente ho tradotto un paio di articoli sullo yoga dall’italiano all’inglese e viceversa. Mi sono trovata – forse per la prima volta in modo serio – nel dilemma della trasmissione.

Cosa vuol dire tradurre? E trasmettere? L’etimo indica in entrambi i casi trasporto da una parte a un’altra, generalmente pensiamo a lingue diverse quando parliamo di traduzione, e a un modo diverso di esprimersi nel caso della trasmissione, per esempio la divulgazione della scienza ai non addetti ai lavori. Ma i confini sono poco definiti, quasi sempre una traduzione letterale è impossibile, non funziona, non ‘rende’. Non parlo di modi di dire come ‘have your cake and eat it’ vs. ‘volere la botte piena e la moglie ubriaca’, ma di come una frase viene costruita, di come un concetto viene espresso in lingue diverse. WordPress mi sgrida sempre

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e so anche perché. L’italiano (non siamo forse un popolo di poeti, naviganti ed eroi?) è una lingua la cui retorica si crogiola nelle incidentali, in inglese la chiarezza ha la massima priorità. A scuola non mi hanno mai chiesto di fare il riassunto di un libro di 500 pagine usando un massimo di 500 parole, ma questo genere di compito a casa è la norma per un bambino inglese. Spero che i tempi siano cambiati anche da noi, perché ne guadagneremmo senz’altro. Come minimo risparmieremmo caratteri – virgole, lineette e parentesi.

Sto divagando. Ovviamente.

Per tornare a bomba, come dice mia mamma, mi sono ritrovata a tradurre un utile libricino di Ramaswami sui concetti di base dello Yoga di Patañjali, che ora potete scaricare dalla pagina dei Testi Consigliati.

Spero di conoscere l’argomento a sufficienza e Ramaswami spiega in maniera chiara. Generalmente quando devo tradurre pezzi lunghi uso Google Translate e poi faccio una revisione accurata del testo, cercando non solo di correggere gli errori ovvi, ma di sopperire alla mancanza di esperienza del traduttore automatico sull’argomento specifico. Funziona abbastanza bene direi, e soprattutto lascia poche possibilità all’istinto di innestare troppe frasi una sull’altra. Proprio qui entra in gioco il dilemma traduzione-trasmissione. Il risultato è chiaro ma io avrei detto alcune cose in modo diverso. In particolare su alcuni aspetti ci si accorge che il testo è un po’ datato, fa riferimento al mondo di una trentina di anni fa, implica alcune interpretazioni di concetti fondamentali sulle quali altri autori e io stessa possiamo avere un’opinione diversa. Ma sto traducendo. Se traduco il testo per i miei allievi e altri che non conoscono l’inglese vuol dire che penso sia utile e che sia importante divulgarlo. Se fossi così sicura di aver capito tutto avrei potuto scritto un manualetto io stessa, no?

Quindi ho completato la traduzione alterando solo le frasi veramente idiomatiche. Il resto, inclusa la diversa ortografia di alcuni termini sanscriti, è rimasto il più possibile privo di un mio intervento personale. Alcune frasi non scorrono benissimo, ma volevo interferire il meno possibile sul modo in cui Ramaswami ha voluto spiegare i concetti.

E questo mi ha fatto pensare. E si arriva, finalmente! al vero argomento del post. Siamo già a più di 500 parole, come volevasi dimostrare.

A quasi tutti noi praticanti e insegnanti di yoga piace pensare di rifarci fedelmente ad una tradizione. Nel mio caso mi ispiro agli insegnamenti di T Krishnamacharya e quindi cerco di non perdere l’opportunità di seguire lezioni di insegnanti che hanno studiato direttamente con lui. Ogni insegnante con cui ho studiato afferma vigorosamente di trasmettere quanto ha imparato, nel modo in cui lo ha imparato, faccia a faccia, direttamente dal proprio Maestro in lezioni individuali. Ma noi, allievi degli allievi (degli allievi), ci ritroviamo di fronte ad apparenti differenze.

Nel canto Vedico si devono seguire regole rigorosissime di tono e accenti: in un mantra non è tanto o solo il testo, ma il suono, ad esercitare l’effetto per cui è stato composto. Eppure ascoltare TKV Desikachar o la figlia fa una bella differenza. Non sono esperta e forse il modo di cantare maschile ha regole diverse da quello femminile (per esempio ho letto che la lingua giapponese è diversa a seconda che la parli un uomo o una donna) ma persone dello stesso genere cantano comunque con una intonazione diversa, non sono copie esatte una dell’altra anche se si sono formate alla stessa scuola. Eppure la trasmissione orale deve essere fedele, pena lo svanire del Messaggio Originale.

E allora? Mi ha colpito molto quello che TK Sribhashyam ha detto al seminario a cui ho partecipato. Erano presenti studenti già suoi allievi, che devono avergli fatto alcune osservazioni su qualche cosa che ha detto. Sribhashyam ha commentato che non dovevano sentirsi confusi, perché avendo studiato con lui per lungo tempo, il suo modo di porsi in relazione con loro era diverso da quello adottato con noi, non conoscendoci affatto. Non dovevano sentirsi gelosi se sembrava che ci stesse spiegando concetti che non aveva spiegato a loro, perché questa era solo un’apparenza dettata dalla promiscuità dell’ambiente.

Credo che qui stia il nocciolo della questione. Fino a che non abbiamo accumulato abbastanza anni di studio ed esperienza personale, parole e intonazioni diverse sembrano avere significati diversi. Ci è capitato di andare a lezione da un altro insegnante, leggere un testo, ascoltare la spiegazione di come si esegue un particolare trikonāsana o di cosa è citta, per esempio, e ci è sembrato di aver finalmente capito. Un nostro allievo torna da un workshop e ci dice che finalmente ha compreso uddiyana bandha. Ingoiamo il rospo. Poi passano gli anni e continuando la nostra pratica e i nostri studi ci pare che – almeno su alcuni argomenti – non ci sia più bisogno di ascoltare parole diverse perché, al di là di nome e forma, finalmente il concetto, che è sempre stato lo stesso anche se ci pareva di no, traspare. Ma il numero di anni di pratica e di studio necessari possono essere tanti, tantissimi, prima di arrivare a questa comprensione. Fino ad allora, se seguiamo insegnanti seri, validi e preparati, le loro parole diverse possono effettivamente aiutarci a fare chiarezza, perché non è detto che tutti siano in grado di raggiungere lo stesso livello di affinità con noi su argomenti diversi. Qualcuno ci spiegherà finalmente trikonāsana, magari un altro ci farà vedere la luce su Prakriti.

Le nostre caratteristiche, le attitudini, l’esperienza personale non possono non lasciare traccia nel modo in cui traduciamo/trasmettiamo quanto abbiamo imparato. Anche se abbiamo avuto un unico insegnante per tutta la nostra vita, quando trasferiremo a nostra volta quanto abbiamo appreso, ed è nostro dovere morire solo dopo averlo fatto, lo faremo inevitabilmente in maniera diversa da come la storia ci è stata raccontata. Questo non vuol dire tradire l’insegnamento.

Fino ad allora, e questo allora forse non arriverà mai, cerchiamo di tradurre più che trasmettere, se pensiamo possa essere utile farlo. Credo che l’importante sia essere onesti. Essere chiari quando quello che spieghiamo è una nostra intuizione piuttosto che quello che effettivamente abbiamo letto su un libro, e non parlare mai, come diceva il Buddha, di ciò di cui non abbiamo fatto esperienza.

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One reply on “La traduzione, la trasmissione e l’esperienza personale”

Trans-duco, trans-porto,trans-ferisco, il “transito” è comunque un “passaggio attraverso”, e come tale suscettibile di trans-formazione.
Ecco come una traduzione può diventare co-autoraggio, portando le modifiche, il contributo e il “marchio di fabbrica” di chi la effettua.
Lo stile e le idee del traduttore sono sempre riconoscibili nelle opere tradotte, poiché passano attraverso il filtro del subconscio, un’operazione sottile, a volte involontaria, ma inevitabile come la metamorfosi cellulare.

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