Recentemente mi hanno chiesto come mai dò tanta attenzione al respiro, come mai le pratiche sono poco ‘complesse’. È una buona domanda, perché la mia pratica sta cambiando e di conseguenza anche – inevitabilmente, è inutile che ce la raccontiamo – alcune delle pratiche che propongo ai miei allievi.
Ho già detto che non seguo molti blog, ma uno, quello del mio amico Anthony meglio noto come Grimmly, è un altro dei pochi. Non leggo sempre tutto quello che scrive – i post spesso sono lunghissimi, pieni di riferimenti a post precedenti e diramazioni di progetti in corso – ma seguo il suo percorso perché in qualche modo lo sento molto simile al mio.
Abbiamo entrambi scoperto tardi la pratica dello yoga, e più o meno in contemporanea; abbiamo iniziato da totali autodidatti e siamo rimasti grandi sperimentatori autonomi, anche ora che abbiamo trovato maestri che ci guidano nel percorso. Entrambi abbiamo un passato di pratica ashtānga vinyāsa (lui per più tempo di me e in maniera molto più approfondita) passando per il vinyāsa krama ‘di’ Ramaswami. Io ci aggiungo ovviamente l’influenza fondamentale degli insegnamenti di TKV Desikachar ricevuti durante il mio percorso di formazione e post-formazione, che guidano le mie pratiche in maniera più o meno percepibile dall’esterno (ma sempre presenti nel cuore), e le esperienze rivelatorie derivanti dall’esperienza con TK Sribhashyam, che sto cercando di comprendere meglio. Insomma l’intera galassia di T Krishnamacharya informa la nostra pratica, nelle sue diverse sfaccettature (le 57 facce del brillante sono pur sempre facce dello stesso diamante!)
Ultimamente Anthony si è fissato sull’idea che un āsana semplice possa essere trasformato in avanzato semplicemente cambiando il modo in cui lo si pratica. Non posso fare altro che concordare, del resto sta proprio qui la raffinatezza delle pratiche ‘viniyoga’, anche se i non addetti ai lavori pensano che si tratti di roba per nonnette.
In effetti però è vero che talvolta non sfruttiamo al massimo la possibilità di lavorare su āsana accessibili. Spesso confondiamo ‘avanzato’ con ‘fisicamente poco accessibile’, facciamo una gran fatica e ci dimentichiamo dello scopo ultimo della pratica, quella di focalizzarci all’interno.
Spesso gonfiamo quella che – a mio parere -dovrebbe essere la parte preparatoria di una pratica fino a riempire tutto lo spazio-tempo che abbiamo a disposizione. E poi non rimane più tempo per il resto. Che invece dovrebbe occupare più spazio-tempo. Che serve la parte preparatoria? Un paio di cose: 1. mantenere il mio corpo in uno stato di buona salute. La varietà di movimenti possibili ovviamente dipende da chi sono e dovrei cercare di mantenerla, di non perderla e magari di aumentarla – ma solo se questo è possibile senza introdurre sofferenza: heyaṁ duḥkham anāgatam ci dice Patañjali, la sofferenza futura deve essere evitata; 2. incanalare energie in eccesso invece di dissiparle – rajas non deve fare spazio a tamas ma a sattva. Ma oltre questo, il suo perché si esaurisce, fare di più rimane un divertimento. Piacevole, come tutti i divertimenti, ma di-vertente. La mente non verge più verso uno stato focalizzato ma continua a disperdersi nei mille movimenti dei mille vinyāsa possibili. Se sono buon medico di me stesso capirò quando ho fatto abbastanza. Ma l’autodiagnosi comporta sempre dei rischi. E allora confrontarsi con l’insegnante può essere molto importante.
Cercare di portare l’attenzione sugli aspetti interni e meditativi fino dall’inizio della pratica, limitare il di-vertimento, può essere utile. Al solito, il respiro viene in soccorso in questo approccio. E come potrebbe non farlo, visto che stiamo parlando di vinyāsa? Entra in gioco un respiro che non semplicemente guida e informa il movimento, ma lavora in modo profondo ed esploratorio in ognuna delle posizioni che assumiamo, un prānāyāma che accompagna nella pratica.
Possiamo lavorare su espiro, inspiro, interruzioni. Fasi respiratorie estese. Profonde. Usare il corpo che respira come l’oggetto grossolano della meditazione. Poi lasciare che il respiro si assottigli e scompaia, portando lo sguardo interno verso l’ombelico, la gola, le sopracciglia, l’orizzonte.. secondo la posizione e l’effetto che vogliamo ottenere. Si apre un mondo diverso, infinito, sottile.
Ultimamente sto sperimentando questa tecnica: verifico la fattibilità di una posizione con un paio di vinyāsa, poi ci ‘entro’ e lì eseguo una serie di respiri estesi e profondi, includendo kumbhaka se possibile. In questa fase l’attenzione è volta all’atto respiratorio, al corpo che respira, al respiro che si fa corpo. Poi – quando, per dirla brutalmente, il sangue si è ossigenato a sufficienza e l’ossigeno nutre e chiarifica la mente – abbandono il respiro profondo e lascio che il sistema entri in uno stato di non-respiro, lo sguardo interno fisso su un punto vitale. Entro nella fase di movimento-non movimento e ci resto fino a che il corpo nuovamente mi richiama verso l’esterno.
Cale Vāte Calaṃ Cittam dice l’ Haṭha Yoga Pradīpikā. Così il respiro, così la mente.
È un metodo molto potente, anche se sono semplicemente in dvipadapitham.
E per nulla noioso, anche se non di-vertente.
2 replies on “Il respiro del prānāyāma nell’āsana non meditativa. Di-vertimento e Yoga.”
Tuttavia, nello stile Vinyasa Yoga, l Ujjayi pranayama e usato moltissimo come un modo per collegare il respiro con il movimento, dato che il Vinyasa Yoga si basa proprio sulla sincronizzazione delle posture e del respiro.
Sono assolutamente d’accordo, e nella pratica del vinyāsa utilizzo sempre il respiro ujjayi. Ma ho trovato che – una volta che siamo nell’āsana – abbandonare ujjayi per entrare in un respiro più spontaneo può essere molto interessante.