Saha nāvavatu/Saha nau bhunaktu/Saha vīryam karavāvahai/Tejasvi nāvadhītamastu/Mā vidviṣāvahai
Possiamo noi essere protetti/Possiamo noi essere nutriti/Possiamo noi lavorare insieme con energia/Che con grande energia possiamo noi studiare ad alto livello/Non ci sia animosità tra di noi
Questo mantra, che deriva dalla Taittiriya Upanishad, viene spesso recitato all’inizio di una lezione di yoga per propiziare il lavoro di insegnamento e di apprendimento.
Già almeno un paio di migliaia di anni fa qualcuno ha sentito il bisogno di propiziare il rapporto tra maestro e discepolo con un’invocazione. Perchè questa necessità, quando sono proprio i maestri ad aiutarci nel lungo e difficile percorso dell’apprendimento? Che succede?
Nelle ultime settimane un paio di amiche mi hanno parlato della loro crisi di relazione con il loro maestro di anni. Amiche diverse, maestri diversi. Non è la prima volta che sento queste storie, e non solo nello yoga. Il mio stesso percorso, a detta di qualcuno, è l’incontro di due poli che talvolta assumono la stessa carica.
È un dato di fatto che il rapporto con il maestro può essere causa di grande sofferenza. Non solo per il discepolo, ma anche per il maestro stesso. Uso il maschile per indicare entrambi i sessi, è più semplice e comunque il sesso anatomico ha poco a che vedere con il pensiero che vorrei esporre, anche se la teoria psicoanalitica ricondurrebbe probabilmente proprio qui.
Parlo del rapporto profondo che si viene a creare tra un discepolo pieno di ardore ed un maestro che dalla propria esperienza percepisce i pericoli potenziali di questo ardore e cerca di arginarli.
Da Tapas, ci insegnano i Veda, nasce Kāma. Da Kāma nasce il mondo.
Mi ha colpito molto AG Mohan sugli Yoga Sutra in un corso online. Puntualizzava l’importanza di Brahmācharya per il maestro (il contenere gli impulsi vitali, per camminare leggeri e focalizzati nel percorso verso la Realtà) come uno strumento per ottenere grande forza nell’insegnamento. Brahmācharya è anche la vita dello studente, non quello che esce a ubriacarsi tutte le sere, ma quello che passa le notti a studiare e non ha altri obiettivi se non apprendere.
Qualcun altro chiamerebbe questo ‘sublimazione’, e questa sublimazione sembra conferire un potere enorme. E infatti i disastri avvengono proprio quando la sublimazione fa cilecca. Quante storie di relazioni, abusi, circonvenzione abbiamo sentito e sentiremo ancora, nel mondo dello yoga e non solo? È evidente che questi risvolti portano la coppia maestro-allievo al di fuori del progetto iniziale di trasmissione dell’insegnamento e costituiscono una grande perdita di opportunità in tal senso. Un maestro serio farà di tutto per evitare che tapas dia origine a kāma.
Ma anche se questo discorso può valere in molti casi, non credo la spiegazione sia (tutta) qui e non è di questo che voglio scrivere..
Temo invece che dobbiamo nuovamente invocare asmitā, il nostro affermarci come esistenti.
Il rapporto tra maestro e discepolo è sempre e anche l’incontro tra due asmitā, e questo incontro può trasformarsi in uno scontro o sfociare in fuga. Un asmitā irruente e vorace, come può essere quello dell’allievo che vuole essere riconosciuto, vuole primeggiare, vuole arrivare alla Conoscenza con tutti i mezzi possibili, incluso esplorare altri sentieri possibili in maniera autonoma. E l’asmitā del maestro, che conosce il proprio ruolo di mentore ma deve anche confrontarsi continuamente con la propria umanità, che desidera affermare la propria influenza, che vuole a sua volta essere riconosciuto e amato in maniera esclusiva. Le richieste di rispetto, fiducia, di limitare le influenze esterne, suggeriscono una lettura che va oltre la mera preoccupazione che l’insegnamento possa essere diluito.
Suggeriscono umanità.
Questa parola è chiave, perché noto che uno dei temi ricorrenti nelle crisi del rapporto maestro-discepolo è proprio la delusione di vedere il maestro comportarsi come un essere umano, soprattutto in discipline che non parlano di aree e volumi ma di coscienza e consapevolezza. Chi credevamo – e forse a propria volta si credeva – al di sopra del quotidiano, chi avevamo messo su un piedestallo, chi desideravamo credere realizzato e illuminato per avere un modello da seguire, è invece fragile e difettoso tanto quanto noi.
Ripenso a Milarepa. Prima di diventare saggio Mila era molto, troppo potente, ma utilizzava la conoscenza per compiere azioni che non lo avrebbero liberato. Il suo futuro maestro, complice la moglie, lo sottopone a mille prove prima di accettare di insegnargli quello che veramente gli sarebbe stato utile.
Dicono che questo percorso duro, in cui bruciamo il karma negativo che abbiamo accumulato, sia necessario. Bisogna svuotare prima di riempire. Forse. Probabilmente. Sicuramente.
Ma leggendo la storia di Mila, Marpa mi è parso estremamente crudele, oltre il necessario. Pareva si divertisse a far soffrire Mila. Forse non sono sufficientemente orientale e non ho capito nulla, ma Marpa mi ha fatto pensare al nonnismo delle caserme. Chissà che esperienze aveva avuto lui stesso nel suo percorso di apprendimento.
E saltando ad un tempo più vicino, mi viene in mente BKS Iyengar, allievo dalle straordinarie capacità, entusiasta, ardente, che Krishnamacharya ha fatto soffrire come un cane. Due personalità fortissime si sono scontrate e le loro strade si sono separate. In che tipo di insegnante si è trasformato poi Iyengar? Che didattica applicano molti dei suoi stessi allievi? Non Steineriana o Montessori, direi. Molti considerano Krishnamacharya come un semidio, o quasi. Un rishi. Ma se pensiamo a come ha trattato Iyengar, che dire? La sua umanità traspare chiara e forte.
E però credo che uno degli aspetti importanti della trasmissione sia proprio l’umanità del rapporto.
Lo specchio che il maestro dovrebbe essere per l’allievo non è l’unico specchio, è spesso solo uno di due, il secondo è l’allievo, e questi specchi paralleli producono riflessioni infinite, moltiplicando e disperdendo le immagini. La conseguenza è che la trasmissione non scorre fluida. Quando entrambi gli specchi si infrangono, quando le proiezioni svaniscono, quando un ego si ritrae e l’altro si sgonfia, e non importa chi lo fa per primo anche se questo rapporto non è mai alla pari, finalmente ci si incontra e la trasmissione può finalmente dare i suoi frutti.
Quando le aspettative cadono, da una parte e dall’altra, quando ci si accetta per come si è, quando non si prova più a cambiare l’altro, il rapporto può cominciare a funzionare.
Credo che in una trasmissione vera, l’interazione trasformi entrambe le parti, maestro e discepolo. Spesso questo percorso di trasformazione è doloroso, e forse per questo spesso ci si spaventa, ci si allontana, ci si riavvicina, sembriamo incerti sul da farsi, vogliamo e non vogliamo, ci sentiamo incompresi, non riusciamo a comunicare chiaramente. Entrambe le parti si mettono a nudo in un rapporto profondo. Questo spaventa.
Molti di noi seguono un percorso tortuoso alla ricerca della Verità, e talvolta anche a causa delle difficoltà nelle interazioni dirette cerchiamo il raggio di luce attraverso altri incontri, nelle diverse modalità che il mondo odierno ci offre.
Personalmente sono convinta che sia molto importante coltivare e mantenere la capacità di ascoltare più voci, anche se dicono la stessa cosa, ma con linguaggi diversi. Vado però via via rendendomi conto che questa scelta è la più facile.
Gli altri incontri sono un’interazione attutita, ovattata, che raramente ci permette di installare un rapporto umano profondo, con tutte le difficoltà che un rapporto umano e profondo presenta. Se da un punto di vista didattico queste esperienze ci aiutano a chiarirci le idee, ci aiutano a crescere, a capire meglio il percorso che abbiamo intrapreso, l’insegnamento, raramente arrivano a coinvolgere quella parte nascosta, unica ed enigmatica che un contatto continuativo e prolungato permette di portare alla luce e risolvere, e che porta con sé una scintilla speciale.
E se mi venisse il dubbio di essere solo io a provare questo, mi basta guardarmi intorno e parlare con amici e colleghi per convincermi di non essere sola affatto in questo sentire. Altri hanno chiamato questo sentire, transfert e controtransfert.
Il fatto che ricordiamo con maggiore intensità i maestri e gli allievi che ci hanno dato più filo da torcere, tornando spesso a loro, con la memoria e se possibile di persona, mi fa pensare che sia proprio attraverso queste relazioni che siamo cresciuti, indipendentemente dal 4+ in filosofia. BKS Iyengar ricordava sempre Krishnamacharya come il proprio maestro.
Se ricopriamo il doppio ruolo di maestro e allievo (e non dovremmo mai smettere di essere allievi) abbiamo il ‘vantaggio’ di conoscere entrambi i mondi. E non dovremmo dimenticare il nostro passato/presente. Avendo la possibilità di riconoscere e immedesimarci nella sofferenza ora dell’uno, ora dell’altro, possiamo provare a lasciare ad asmitā solo lo spazio strettamente necessario.
Il bellissimo film della Cavani sulla storia di Milarepa:
https://youtu.be/HMuc-ei36rI
One reply on “Ancora su Asmitā – nel rapporto tra maestro e discepolo”
È una riflessione stimolante e matura, dialettica, nel senso che il rapporto maestro-allievo, qualunque disciplina riguardi, non può prescindere da conflittualità ed ambivalenze, presenti d’altronde in ogni rapporto umano e maggiormente in situazioni di autorità-dipendenza. L”umanità’ cui fai riferimento e mi sembra tu intenda, è il riconoscere da parte del maestro, pur problematicamente, come propri, passati o presenti, aspetti che rifiuta nell’allievo. Brava Chiara.