È davvero tanto tempo che non scrivo, troppo in realtà. Non so bene perché. Forse la sbornia post-traduzione del libro sugli Yoga Sūtra di Edwin Bryant mi ha lasciato stremata e troppo ubriaca di parole, o forse ho cominciato a pensare che sia meglio stare zitti, in generale e se non si crede di aver nulla di nuovo da dire.
E ultimamente sullo Yoga c’è davvero tanto di detto, di scritto, di fatto. Alcune cose appaiono nuove, molte sono trite e ritrite, alcune utili, altre molto meno utili, penso anche solo alle polemiche sull’appropriazione culturale, sul consumismo dello Yoga, su cosa è Yoga e cosa no… le solite solfe che a dire il vero mi hanno un po’ stancato – soprattutto perché ormai troppi si ergono a giudici solo per aver studiato qualche sproloquio accademico.
Ma volevo parlare di altro, volevo parlare di un sūtra che quest’anno ho sentito molto presente – è il II.9, che recita:
svarasa-vāhī viduṣaḥ-api samārūḍhaḥ-abhiniveśaḥ
L’attaccamento alla vita è una tendenza innata, che affligge anche i saggi
Questo 2020 è stato un annus horribilis e la paura della morte (un altro modo in cui il termine abhiniveśaḥ si trova spesso tradotto) è stata una presenza emotiva molto presente per tantissimi, che si è spesso concretizzata nella preoccupazione e anche nella perdita di persone care. Ma a parte la morte fisica, molti di noi si sono trovati in una situazione economica estremamente incerta, con difficoltà concrete nel presente e l’impossibilità di guardare serenamente al futuro. E questo altro tipo di ‘morte’ – la morte della propria attività lavorativa, con tutte le conseguenze che può avere a livello personale, familiare e sociale, è forse anche più forte nel suo impatto che non la paura della morte fisica.
Inevitabilmente mi sono trovata a pensare alla possibile morte del mio piccolo Studio. Un pensiero-tarlo, che come spesso accade, erode serenità, erode energie, erode creatività e fiducia. So di non essere sola, tanti insegnanti come me sono nella stessa situazione.
La pratica aiuta a recuperare il senso dell’importanza delle cose e a mettere a fuoco la realtà oggettiva, che è necessariamente impermanente, covid-19 o meno.
Ma come dice Patañjali, la paura della morte colpisce anche i più saggi. È il kleśa più subdolo. Non è (solo) il prendere lucciole per lanterne di avidyā; non è (solo) il riportare tutto al proprio piccolo mondo di asmitā; non è (solo) il circolo vizioso fatto del desiderio del piacevole, del nuovo, del futuro di rāga e dall’avversione per le cose sgradevoli, difficili, superate, di dveśa; è tutto questo e anche di più. L’attaccamento alla vita distilla in sé gli altri kleśa, allo stesso modo in cui avidyā li anticipa.
La pratica, con la circolarità di abhyāsa – vairāgya impegno e distacco, movimento a decrescere opposto al movimento in crescendo indotto dai kleśa, aiuta a recuperare il silenzio che induce alla serenità, all’energia, alla creatività e alla fiducia. Aiuta a recuperare la visione di ciò che è profondamente eterno, che si trova oltre l’impermanenza del presente.
L’attaccamento alla vita è una tendenza innata, che affligge anche i saggi – non mi sento poi così saggia e le bollette bisogna pagarle 😉 – ma non credo che vi bombarderò di pubblicità. Cercherò di inventarmi qualcosa di meno fastidioso per convincervi a praticare con me. Vedremo cosa porterà il 2021.