Ho recentemente tenuto un seminario per gli allievi del mio amico Óscar a León (http://www.yogavinyasakrama.com) e ho scelto un argomento che mi sta molto a cuore: il flusso di Prāna.
Prāna è energia vitale, le storie indiane raccontano che quando Prāna abbandona il corpo la vita finisce e tutti gli organi di senso ne riconoscono la superiorità. Ma Prāna è anche respiro, è la connessione diretta tra la nostra Coscienza e la nostra Mente ed è per questo che occorre che il corpo sia un ‘contenitore’ pulito affinchè Prāna possa potersi muovere liberamente.
Prāna-con-la-P-maiuscola ha diverse suddivisioni che conosciamo come Prāna Vayū, i soffi vitali, ognuno deputato ad una funzione diversa: i principali sono prāna (con-la-p-minuscola), apāna, vyāna, samāna, udāna. Li possiamo immaginare come localizzati in diverse aree del corpo, anche se i testi di Yoga non concordano sempre sulla loro localizzazione; prāna nella zona del torace e connesso con l’introduzione del nutrimento, a partire dall’ossigeno che ci permette di vivere ma anche nutrimento inteso come stimoli sensoriali; apāna legato all’eliminazione e pertanto collegato alla zona del basso addome e all’espiro; vyāna delocalizzato su tutto il corpo e deputato a distribuire il nutrimento. Possiamo immaginare samāna come un soffio equilibratore e assimilatore del nutrimento, lo ritroviamo nella zona dell’addome ma è anche coinvolto nella stabilità psicofisica, sperimentiamo spesso di come le torsioni possano lavorare a livelli profondi e stimolare reazioni fisiche ed emotive e di come le posizioni di equilibrio siano difficili se la mente non è calma. Udāna è un soffio ascendente, lo ritroviamo nella zona più vulnerabile del corpo, la gola e spesso le pratiche dove andiamo a toccare questa zona sono pratiche forti non solo a livello fisico.
Quando Prāna non scorre bene, quando il corpo è malato, quando la mente è appesantita, quando si disperde all’esterno e non è ben indirizzato, lo sentiamo subito nel respiro. È di questo che parla Patañjali nei sutra del primo libro dedicati agli ostacoli (antarāya) sul percorso e come superarli (YS I.30-I.39).
Quando siamo malati, quando siamo assaliti dall’apatia, dal dubbio, dalla fretta, dalla stanchezza e dall’indulgenza, quando ci sentiamo supereroi ma anche quando non ci sentiamo all’altezza di affrontare la vita, quando gettiamo la spugna e quando facciamo passi indietro perché non siamo stabili il nostro corpo mostra dei sintomi inconfondibili. Siamo appesantiti e percepiamo che qualcosa non ‘gira’ nel verso giusto, vediamo tutto nero, siamo irrequieti e il nostro respiro si affanna e diventa irregolare. Patañjali definisce questo respiro śvāsapraśvāsā, un inspiro ed un espiro irregolari, interrotti, non fluidi. È interessante che utilizzi questo termine e poi ne utilizzi un altro per indicare il respiro fluido e regolare, a quel punto lo chiama prānāyāma e ne parla nel secondo libro degli Yoga Sutra.
E che consigli ci dà Patañjali? Ci dice che dovremmo gioire per chi è felice e provare empatia per chi soffre, cercare modelli positivi e allontanarci dalle influenze negative. Più facile a dirsi che a farsi, quando il mondo sembra batterci contro. Possiamo analizzare le sensazioni corporee e da quelle partire in un percorso di introspezione che risulterà in un acquietamento del mentale. Possiamo pensare che dentro di noi esista qualcosa di Luminoso e che va oltre la sofferenza che stiamo provando. Questo ci dà fiducia. Possiamo chiedere consigli a chi ha già passato momenti difficili, a qualcuno che ci vuole bene. Possiamo ispirarci a figure positive. Ma la cosa interessante è ci dice anche che possiamo fare una cosa molto semplice: respirare! e in particolare allungare l’espiro. Una pratica fisica per calmare i problemi del mentale.
Più avanti, nel secondo libro degli Yoga Sutra, Patañjali ci descrive come, una volta allenato il corpo a sedere in maniera attenta ma non tesa, il respiro cambi in qualità e quel respiro disarmonico caratteristico dell’ansia si possa allenare a uscire dal corpo, rientrarci e fermarsi per poi trasformi in qualcosa di più lungo, sottile, capace di fermarsi senza la sensazione del soffocamento. Per aiutarci in questo processo ci dà alcune indicazioni sul dove e come soffermare il pensiero, e ci dice anche che con la pratica il respiro si trasforma ancora e quasi si sospende, diventa ‘interno’. Si crea uno spazio magico che evapora appena ci rendiamo conto di esserci entrati.
Ma quando entriamo in questo spazio magico, è come se il velo che copre le percezioni corrette si alzasse, una nuvola si scioglie. E siamo pronti a non farci più distrarre dagli stimoli esterni, la nostra attenzione è stabile e pronta a focalizzarsi.
Non sappiamo bene che tipo di esercizi di respirazione praticasse Patañjali e i suoi contemporanei. Mi piace però pensare che l’approccio di Patañjali fosse più sottile di quello degli Hatha Yogin che un migliaio di anni dopo descrivono le proprie pratiche in maniera dettagliata. Anche qui troviamo la sospensione del respiro, ma in un approccio molto più fisico di quanto possiamo percepire dal testo degli Yoga Sutra. In libri come l’Hatha Yoga Pradipika, il Gheranda Samhita, lo Siva Samhita, lo Yoga Yajnavalkya leggiamo che le pratiche di prānāyāma sono molto intense, con pause respiratorie a polmoni pieni lunghe al punto di far sudare, tremare e scuotere il corpo, fino a che la padronanza è tale che anche qui il respiro si sospende superando la decisionalità.
In realtà non lo sappiamo con precisione, certo è che nessun Hatha Yogin intraprende un percorso del genere senza aver prima preparato il corpo. E non parliamo solo di ginnastica. Qui troviamo infatti un bel numero di precetti per la purificazione profonda, anche molto invasivi. Tra questi troviamo anche un tipo di respirazione a narici alternate, nādī shodhana, definita come prānāyāma.
Si dice che Krishnamacharya approvasse solo di un paio di queste pratiche preparatorie, non quelle invasive, e comunque non per tutti. Del resto anche lo Hatha Yoga Pradipika dice che alcuni maestri ritengono che il prānāyāma da solo sia sufficiente a bruciare tutte le impurezze. Krishnamacharya era uno di questi maestri.
Solo dopo le pratiche di purificazione si può affrontare le pratiche di kumbhaka, come molti testi di Hatha Yoga chiamano quello che noi praticanti moderni chiamiamo prānāyāma. I kumbhaka comprendono lunghe, estreme, sospensioni del respiro, stambhavrtti al cubo.
Fatto sta comunque che lo scorrere di Prāna libero da intoppi era un passaggio fondamentale sia per gli Hatha Yogi che volevano ritenere Prāna all’interno del corpo, incanalarlo attraverso i canali energetici, scalzare l’ostacolo alla base della colonna, una colonna vertebrale drittissima e adamantina, per farlo scorrere lì dentro, che per Patañjali che riconosceva la necessità di preparare il terreno prima di poter raccogliere alcunché dalle pratiche meditative.
Il risultato finale di queste pratiche è lo stesso, dal momento che l’Hatha Yoga altro non è, per sua stessa ammissione, che una preparazione al Rāja Yoga, gli ultimi passaggi di quanto descritto da Patañjali negli Yoga Sutra, ma mi pare che le metodiche potessero essere almeno in parte diverse.
Patañjali sembra partire da un mentale impuro, passare dal corpo in maniera raffinata ma quasi incidentale, per creare le condizioni adatte a tornare ad un mentale ripulito, i ninja dell’Hatha Yoga paiono fermamente risoluti a partire dal corpo o quantomeno fare del lavoro sul corpo una parte fondamentale del processo di trascendenza. Ammetto che secondo me si divertivano come matti nelle loro foreste, o lungo i fiumi, con le loro pratiche fisiche intensissime (non dimentichiamoci che hatha, al di là di sole-luna vuole dire forte, quasi violento, la forza del prāna che scorre, e che ha-tha può essere inteso come l’incontro tra prāna e apāna, quindi possiamo anche fare l’equazione Hatha Yoga = Prānāyāma).
E noi? Cerchiamo di trovare una via di mezzo, cerchiamo di allenare il corpo ed il respiro affinché non siano di ostacolo e ci lascino intravedere la luce attraverso uno spiraglio. Non siamo in grado credo, almeno non la maggior parte di noi, di praticare gli estremi dei veri Hatha Yogin.
Durante il seminario ho proposto tre pratiche che portassero alla comprensione esperienziale dei soffi vitali, del respiro purificatore di Patañjali e infine del respiro che trattiene e incanala Prāna dell’Hatha Yoga. Non so se ci sono riuscita completamente, la mente e l’ego giocano brutti scherzi, ma spero e credo che un po’ del mio messaggio sia arrivato.
Ma quello che mi ha riempito di vera gioia è che nel preparare questo workshop mi sono ritrovata una volta di più a provare una davvero grande ammirazione per il metodo che insegno, per come mi è stato insegnato. Il viniyoga (applicazione progressiva) dello Yoga applicato alla pratica del vinyasa è un metodo potentissimo, creativo ed efficace per la trasmissione di concetti teorici importanti. Dobbiamo solo resistere alla facile tentazione di ridurlo a mera ginnastica.